«Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2,18).
Così racconta la Genesi sulla creazione dell’uomo ed è proprio questo il concetto che Papa Francesco ha voluto sottolineare in vista della prossima giornata mondiale del malato che si terrà l’11 febbraio:
“Siamo creati per stare insieme, non da soli. E proprio perché questo progetto di comunione è inscritto così a fondo nel cuore umano, l’esperienza dell’abbandono e della solitudine ci spaventa e ci risulta dolorosa e perfino disumana.” Il suo ammonimento ci riporta alla vicinanza, alla compassione e alla tenerezza verso coloro che soffrono affrontando una malattia o un momento di debolezza.
Prima o poi tutti nella vita facciamo esperienza della malattia; sperimentiamo la debolezza, il non poter affidarci completamente a noi stessi ma dover chiedere aiuto. Proprio in questi momenti di prova e difficoltà si possono manifestare gesti di vicinanza e di amore. Assistere una persona nella malattia vuol dire prima di tutto non lasciarla sola. “La base della cura è la vicinanza” racconta Adelaide, infermiera presso BeeCare, in procinto di terminare il CAS in Cure palliative. Le abbiamo chiesto di raccontarci la sua esperienza.
Perché nella vita hai scelto di stare accanto a chi è malato?
“Penso che lo scopo della mia vita sia prendermi cura degli altri. A me piace parlare di talenti, capacità e doti, scoprire pian piano cosa ci rende felici. Durante il percorso di studi ci insegnavano le 3 S: sapere, saper fare e saper essere. Il sapere è fondamentale per poter offrire cure basate su conoscenze scientifiche, apportate ad ogni singolo caso. Il saper fare è altrettanto importante, imparare le tecniche per l’assistenza al paziente e la gestione di apparecchiature sempre più sofisticate. Infine il saper essere, con la consapevolezza che la nostra cura passa attraverso la relazione; essere infermiere vuol dire in primis saper essere persona e individuo presente a sé stesso, che sappia poi essere presente agli altri.”
Adelaide sottolinea anche come sia opportuno lavorare per un futuro di prevenzione; insegnare alle persone come prendersi cura di sé stessi, sapere come sentirsi e vedersi imparando a gestire il proprio corpo.
Ma non solo il corpo fisico, è fondamentale imparare a considerare il proprio essere nei tre elementi che formano l’uomo: corpo, anima e spirito.
Mettersi alla pari con gli altri
Cosa vuol dire per te mostrare compassione e tenerezza ai pazienti?
“Avere compassione significa mettersi alla pari con le proprie fragilità e debolezze. Siamo una stessa umanità, io che curo e coloro che vengono assistiti. Questo approccio di un’unica umanità mi porta a non indossare un ruolo ma ad essere un umano che in quel momento è in aiuto al prossimo, con la consapevolezza che a sua volta verrà aiutato lui stesso nel momento del bisogno. Si tratta anche di prendere parte alla vita del paziente, entrare a far parte del suo mondo fatto di relazioni, emozioni, vissuto e speranze future. Compassione vuol dire per me guardare e vivere insieme quel momento. La tenerezza posso manifestarla ai miei pazienti dandogli la mia completa attenzione: ‘Non si preoccupi, io sono qui per lei.’ “
Secondo la tua esperienza lavorativa, che peso ha la vicinanza per chi combatte una malattia?
“La base della cura è la vicinanza. Il nostro agire quotidiano si basa sulla cura del corpo che necessita di vicinanza fisica, ma allo stesso tempo anche di vicinanza psicosociale. Le persone hanno bisogno di essere toccate e guardate, nel corpo e nell’anima. Nel nostro lavoro si entra spesso in una relazione intima e profonda con il prossimo, dove si ha modo di ascoltare la vita delle persone, che in fondo cercano solo di portarti alla luce del loro essere.”